È una storia che corre lungo il ‘900 quella che mi racconta Silvia Chirico mentre passeggiamo tra le mucche, le bufale e le capre della Tenuta Chirico, in quel di Ascea, nel Cilento. Storia di amore per le proprie origini, di attaccamento alla propria terra e, soprattutto, storia di famiglia. Una di quelle storie che svelano l’identità dei prodotti e che così bene riescono a far comprendere tutta la differenza che li separa da un anonimo formaggio industriale senza padri e senza legami.
Il negus, è da lui che parte ogni cosa. Da lui, il nonno di Silvia, che emanava una autorevolezza tale da fargli guadagnare quel bizzarro soprannome, e da Massa, frazione di Vallo della Lucania, alle pendici di quel monte Gelbison considerato sacro perché vi sorge il Santuario della Madonna di Novi Velia. La grande avventura della vita del negus fu un vero colpo di testa: a soli 11 anni decise di emigrare negli Stati Uniti e, per eludere la resistenza dei genitori, contrari a quell’impresa che sembrava assurda e impossibile, chiese in prestito del denaro a una zia impegnandosi a restituirlo al suo ritorno fino all’ultimo centesimo. Tornò dopo qualche anno con una somma sufficiente a estinguere il debito e ad acquistare una piccola proprietà su cui diede vita a una azienda agricola: coltivava ortaggi, aveva qualche mucca ma andava famoso soprattutto per l’allevamento dei maiali.
Benedetto, il padre di Silvia, era il minore tra i figli del negus. Anche lui sperimentò l’emigrazione, trascorrendo solo pochi mesi nel nord, in fabbrica, per capire subito che il suo futuro era nel ritorno alla sua terra, che la sua aspirazione era proseguire la tradizione agricola di famiglia e, magari, riuscire a creare un’azienda che desse lavoro anche ad altri.
Nel Cilento di quegli anni la terra era ancora in buona parte in mano ai baroni latifondisti; Benedetto colse l’occasione che gli si presentò quando un aristocratico, arrivato per comprare uno dei rinomati maialetti allevati da suo padre, fece intuire di avere grosse difficoltà economiche: tentò di acquistare una parte delle sue terre e, al rifiuto del barone, concluse con lui un contratto d’affitto di dieci ettari di terreno. Accadde così che nel 1970 il papà di Silvia lasciò il fondo di Massa, con la sua fama consolidata, per trasferirsi “giù”, in pianura, più vicino al mare, e iniziare ad allevare mucche e produrre latte, associandosi a una cooperativa che lo conferiva alla centrale del latte di Salerno. Ed era così buono, quel latte, che la cooperativa offriva incentivi a chi riuscisse a produrne uno di pari qualità.
Solo più tardi, negli anni ’90, la famiglia Chirico cominciò ad occuparsi della trasformazione, e in seguito ampliò l’allevamento introducendo bufale e capre, per diversificare il prodotto.
Oggi l’azienda è sempre a conduzione familiare, pur avendo realizzato il sogno di papà Benedetto di dar lavoro anche ad altri. Produce una varietà di formaggi con solo latte da allevamenti propri, perché, dice Silvia, bisogna conoscere bene la materia prima per lavorarla al meglio e, naturalmente, essere certi della sua qualità. I capi sono circa 600, alimentati in maniera sana con foraggi coltivati in azienda utilizzando concime naturale proveniente dall’allevamento stesso, e un impianto biogas ricava metano dal letame. A completare il quadro di un’azienda che è per certi versi un modello, ci sono le attività didattiche con le scuole, che comprendono visita degli allevamenti, laboratori e proiezioni in un’aula didattica appositamente allestita.
Ma l’aspetto più notevole di questo allevamento – caseificio, a parer mio, è l’attaccamento alle radici che ispira il recupero di produzioni antiche e spesso dimenticate.
Il prodotto – simbolo di Chirico, quello che ne sugella l’identità, è la mozzarella nella mortella, un formaggio a pasta filata di latte vaccino che in quel territorio si lavora praticamente da sempre, ma è rimasto sconosciuto altrove fino a pochi anni fa. La sua origine è la più umile che si possa immaginare, e si lega alla necessità più che alla scelta, come avviene spesso per i prodotti più tradizionali. Nel Cilento pastorale, chi portava al pascolo le mucche, di solito in montagna, raramente aveva la possibilità di tornare a casa di sera. Perciò doveva lavorare il latte munto là dove si trovava; ne faceva, in massima parte, caciocavallo, ma quando preparava questa mozzarella fresca e deperibile, doveva conservarla, proteggerla dagli agenti esterni e anche trasportarla con facilità a casa o al mercato. Così la avvolgeva in fasci di mirto, arbusto aromatico facilmente reperibile in quelle zone, che legava con rami di ginestra, facendo di necessità virtù, giacché il mirto cedeva al formaggio il suo profumo caratteristico.
È questa anche la ragione della singolare forma allungata della mozzarella nella mortella, a ventaglietto, con un lato più sottile dell’altro, perché da quel lato le mozzarelle venivano accostate tra loro, come gli spicchi di un’arancia, e in ogni fascio se ne disponevano dieci; in questo modo al mercato non era nemmeno necessario che il venditore possedesse una bilancia: le mozzarelle si compravano a mazzi.
Oggi la mozzarella nella mortella si vende in vaschette sigillate, come impone la modernità, ma conserva quella sua freschezza di latte esaltata dall’aroma di mirto che si intensifica con il passare del tempo. Il merito di papà Benedetto, dice Silvia, è stato rendere disponibile per la distribuzione un prodotto così tradizionale ma così poco conosciuto, dato che fino a 25 anni fa non se ne faceva quasi commercio.
E se nel caseificio Chirico si producono anche caciocavalli, fior di latte, ricotta, mozzarella di bufala, cacioricotta di capra, accontentando esigenze di consumo molto differenziate, il recupero di tradizioni locali sconosciute ai più non si ferma. Così, per esempio, si realizza una piccola produzione di caso ammurriato, formaggio di latte vaccino conservato in una sorta di cremina realizzata con residui della lavorazione dell’olio e del grano, messo in vasi di terracotta e stivato in cantine per lungo tempo, o il caciocavallo invecchiato nel grano, la cui storia riporta ancora una volta al latifondo e alla furbizia dei coloni: per assicurarsi una parte di formaggio superiore a quella che veniva loro lasciata dai proprietari terrieri, i coloni lo nascondevano nelle madie piene di grano, dove si stagionava lungamente. Oggi da Chirico lo si chiude in grosse casse di legno di castagno in cui rimane per 6-7 mesi.
E poi c’è il cosiddetto caciocavallo dell’emigrante, nato dal divieto di far entrare in America i derivati del maiale: per portare con sé i salami, gli emigranti li occultavano nei caciocavalli per passare la dogana senza problemi.
Il recupero del passato è, insomma, una priorità di Silvia, “per non dimenticare”, come ripete. Ma il futuro è ben rappresentato dall’innovazione continua che oggi vede come ultimi approdi la produzione di yogurt e quella di gelato di latte di bufala, da latte freschissimo e materie prime selezionate. Silvia ci si dedica appassionatamente, e per realizzarlo ha seguito corsi e si è preparata, rifiutando ogni improvvisazione: ne è nato un gelato gustoso, cremoso e delicato, in cui lo zucchero è dosato accortamente, che lascia la bocca pulita e nessuna sensazione di sete. Da provare il gelato all’olio extravergine di oliva del Cilento dell’azienda Colline di Zenone.
Al caseificio Chirico ci si può anche fermare per uno spuntino o un pasto veloce, sedendosi a uno dei tavoli de La Sosteria per assaggiare formaggi e latticini oppure delizie cilentane di altri produttori.
Quanto al futuro, è nella mente di Silvia, che mi è sembrata una donna timida e riservata ma con una testa in continuo fermento. Far crescere il territorio attraverso le sue produzioni è il sogno: creare turismo intorno alle cose buone, come altri sanno fare bene, anche in terre che hanno meno da raccontare. È un sogno che le auguro di realizzare, ma le auguro soprattutto di continuare a sognare.
Tenuta Chirico
Via Isacia, 29 – Ascea (SA)
Tel.: 0974 971584